"I curdi parlano del carcere come della loro universita’. E del loro tempio: gli eroi nazionali sono quelli che si sono lasciati morire di fame o si sono dati fuoco dietro le sbarre. Nell’abisso delle prigioni turche darsi la morte e’ l’unico messaggio di vita". Dino Frisullo sa di cosa parla. Perche’ lui quelle carceri le ha provate. E ha respirato l’aria pesante della repressione in nel Kurdistan turco. Il pacifista barese e’ stato arrestato dalla polizia turca a Diyarbakir il 21 marzo 1998. "Ero andato li’ con una delegazione di cento osservatori europei per seguire una manifestazione in occasione del Newroz, il capodanno curdo. C’erano 70.000 persone. Quattro anni primi quel corteo si era concluso nel sangue, con 40 curdi morti durante gli scontri con la polizia. Gli anni successivi invece non c’erano stati disordini, proprio grazie alla presenza degli osservatori". Anche quell’anno tutto sembrava tranquillo. Poi pero’ la situazione e’ precipitata. Centinaia di feriti, una donna e un bambino finiti sotto i cingoli dei carri armati e ridotti in coma.
Dino Frisullo venne allora arrestato, insieme ad altri due italiani, un giovane di Firenze e una ragazza napoletana. "Ci portarono – ricorda - al comando di polizia. Rimanemmo li’ dentro agli arresti per tre giorni, senza un avvocato. Poi gli altri due furono scarcerati ed espulsi. Su di me invece lo stato turco decise di costruire il processo esemplare". Il portavoce della Rete antirazzista fu poi scarcerato il 30 aprile, dopo la prima udienza, alla quale era stato accompagnato in ceppi. Si e’ ripresentato al processo, dove ha subito una condanna a un anno di reclusione (con la condizionale) e una multa a circa quaranta milioni in lire italiane per apologia di terrorismo. "Il mio caso rischiava di compromettere irreparabilmente i rapporti tra la Turchia e l’Italia o l’intera Europa. Per questo sono stato risparmiato".
Ma il ricordo di quei quaranta giorni e’ indelebile. "C’erano ovunque per il carcere le tracce degli strumenti di tortura. Ho visto gli anelli di metallo sospesi a due metri e mezzo da terra a cui venivano appesi i prigionieri, le vasche in cui venivano immersi in acqua gelida, o nell’orina e gli escrementi, i fili elettrici. La cella di fronte alla mia e’ stata per decenni uno dei principali luoghi di tortura. Era divisa in veri e propri loculi. Ciascuno aveva un finestrino che dava sul corridoio: da li’ i prigionieri ogni giorno dovevano esporre le mani e i piedi per la bastonatura".
Oggi nel carcere di Diyarbakir le condizioni dei detenuti sono migliori rispetto a quelle dei sessanta penitenziari speciali disseminati per la Turchia, in cui sono confinati oltre 12.000 prigionieri politici curdi. Nel ’97 una rivolta fu repressa, e dodici condannati massacrati brutalmente dai soldati. Il governo fu costretto a sostituire il direttore. Adesso li’ non si pratica piu’ la tortura sistematica. Ma i maltrattamenti si’. "La notte prima del mio processo senti’ urla e grida dalla sezione dei detenuti politici. I curdi scandivano slogan, i soldati erano in fibrillazione. Il giorno dopo seppi che tre prigionieri erano stati bastonati a sangue e lasciati mezzi morti davanti alle loro celle", ricorda Frisullo.
La sua voce e’ calma mentre racconta quella che definisce "l’esperienza piu’ dura e formativa della mia vita". Ma la tensione e la rabbia tenute dentro sono tradite dalle mani. Sono poggiate sulle gambe, ben strette. Quasi volessero assicurarsi che si’, sono ancora li’, nessuno le ha spezzate. Tra le dita c’e’ spesso una Ms, da cui aspira raramente. Per non interrompere le parole. "La cosa piu’ terribile del sistema carcerario turco e’ il totale arbitrio. Puoi restare li’ settimane, mesi, anni, decenni. Sepolto vivo, sempre nella paura che possa succederti qualcosa. Molti detenuti non vanno mai in ospedale, neanche quando stanno male: perche’ li’ ti fanno una iniezione di strictnina e dicono che hai avuto un infarto".
Dall’esperienza della tortura dopo gli arresti passano praticamente tutti. Anzi la resistenza alla tortura, per i curdi, serve sostanzialmente a stabilire a quale sezione del carcere si deve essere assegnati. "Se dopo quattro o cinque giorni l’arrestato non firma la confessione, gli viene contestato un reato comune, spesso il traffico di droga, e viene condannato a otto-dieci anni. Se firma subito e’ accusato di un crimine politico e le pene vanno da quindici a venticinque anni di prigione". Quelle dei "politici" sono condizioni durissime. Di cui pero’ Dino Frisullo non ha esperienza diretta. Pur essendo accusato di un reato politico e’ stato infatti tenuto nella cella dei delinquenti comuni: "Non volevano che avessi contatto con i perseguitati, che vedessi da vicino, che guardassi i volti. Ma in carcere ci sono mille modi per comunicare…". La sua prigionia e’ stata trascorsa quindi in una grande cella con altri trentacinque condannati. Diciotto file di letti a castello, con al centro un tavolo. Un televisore con un solo canale, quello della tv di stato. E il fornelletto del te’ sempre acceso, dove i carcerati cucinano le provviste che gli mandano i parenti. Per integrare le scarse razioni di brodaglia che dovrebbero essere il pasto dei detenuti.
C’e’ poi la guerra tra i detenuti, ferocemente sobillata dai militari. L’enorme costruzione di cemento alla periferia di Diyarbakir, isolata da un profondo fossato e separata dal mondo esterno con una enorme porta di ferro ad ante scorrevoli, e’ divisa in tre sezioni per i "politici", piu’ la cella dei "comuni". In fondo, relegati, gli irriducibi. Piu’ vicini, anche fisicamente, alla direzione, i pentiti. Che sono utilizzati anche per attivita’ repressive. "Mi accorgevo che le loro celle di giorno si svuotavano", dice Frisullo. "Ho chiesto e mi hanno spiegato che vanno fuori a dare una mano alla polizia, a sparare contro i loro connazionali". In mezzo i "senza parte", gli indecisi. Su cui sono esercitate violente pressioni. Non possono vedere i duri e puri. Sono invece a contatto con i pentiti, da cui vengono spesso. I trattamenti sono diversificati. I pentiti hanno diverse ore d’aria al giorno, possono incontrare i loro familiari faccia a faccia. Gli altri invece non hanno diritti. Possono vedere i loro parenti attraverso due grate a un metro di distanza l’una dall’altra. "Se uno ha un figlio non puo’ toccarlo. Puo’ rimanere li’ per vent’anni e vedere crescere solo un’ombra".
Queste sono le galere turche, quelle migliori. "E’ l’isolamento del mondo, il silenzio del mondo", dice Frisullo. "Quando ero li’ non potevo leggere stampa straniera, non avevo contatti con l’esterno, solo poche lettere passavano al vaglio della censura. Ho saputo della mobilitazione internazionale a mio favore solo quando sono uscito. Mentre ero li’ guardavo solo i giornali di regime che mi definivano ogni giorno provocatore, infame, terrorista". Eppure la posizione di Frisullo non era cosi’ compromettente. "Sono andato in Turchia come osservatore. Solidale si’, ma pur sempre osservatore. Non era certo dalla parte dello stato ma neppure dell’anti stato", dice. Lui comunque si considera un miracolato. "Sono l’unico europeo a essere entrato nelle carceri turche e a esserne uscito per poter raccontare. Quei giorni li’ dentro pero’ mi hanno cambiato. Per questo al processo ho ironicamente ringraziato i giudici turchi per l’esperienza che mi avevano fatto vivere".
Ma Dino Frisullo in Turchia ci vuole tornare. Provera’ quando si terranno le nuove elezioni, ma probabilmente sara’ respinto alla frontiera. "Quel che e’ certo – afferma – e’ che ci tornero’ se dovessero uccidere Ocalan, cosa che ritengo probabile. In quel caso pero’ lo faro’ clandestinamente. Per stare a fianco del popolo curdo in quello che di certo sara’ diventato un inferno".
5 marzo 1999
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